Da " La Quercia. Storia sociale di un albero" di William Bryant Logan.

Ecco una prospettiva affascinante e inattesa che William Bryant Logan coglie per raccontare come il tratto caratterizzante di questo albero sia proprio la sua pertinacia, la sua adattabilità. Possente, maestosa e necessaria, ha favorito in modo vitale l'evoluzione economica, geografica e culturale dell'umanità; a partire dalla ghiande, alimento base dell'Homo sapiens [...].

"Nella maggior parte delle zone temperate, la quercia è l'albero più importante, il re della foresta. In sanscrito, la parola «quercia» e la parola «albero» coincidono: duir. Nessuna pianta si è rivelata così utile per l'umanità ed è stata la quercia ad insegnare all'uomo i segreti della selvicoltura. La conformazione del suo legno era quella che più si prestava a essere spaccata e modellata. Un tronco in fase di essiccamento mostrava il reticolo interno di cerchi e raggi lungo i quali si doveva intervenire e, a seconda delle dimensioni della pianta, si potevano ottenere assi e travi di qualunque spessore e larghezza. Solo la quercia era modellabile in modo tanto facile e flessibile dalle asce di pietra e in seguito, con la comparsa degli attrezzi di bronzo e poi di ferro, essa divenne una materia prima davvero strategica. Per capire il mondo da cui proveniamo, basta guardare a ciò che ne resta: case a graticcio; disegni di Leonardo da Vinci a base di inchiostro di galla di quercia; imbarcazioni di legno vichinghe seppellite con i morti; bare dell'Età del Bronzo intagliate nei tronchi; antichi barili, fusti, tini, tinozze; tappi di sughero e tartufi; foglie fossili risalenti a trenta milioni di anni fa, appartenute forse alle prime querce..."

"La mappa mostra chiaramente come la distribuzione delle querce coincida con i luoghi delle grandi civiltà stanziali dell'Asia, dell'Europa e del Nord America. Sarebbe affrettato supporre che la quercia sia stata una precondizione per la nascita di queste civiltà, ma è affascinante pensare che da Kyoto a Pechino, dal Kashmir a Gerusalemme, da Istanbul a Mosca, da Gibilterra a Oslo, da Atene a Roma, da New York a Chichén Itzà, da Città del Messico a Seattle, ovunque siano sorte le città e le culture che hanno plasmato il mondo moderno vi siano o vi siano state delle querce. [...] Piuttosto, sembra che le popolazioni si dirigessero e si stanziassero proprio là dove crescevano le piante in questione. Esiste una sorta di empatia di fondo tra la quercia e l'uomo: apprezziamo le stesse cose, le nostre virtù si somigliano molto e siamo arrivati entrambi fino ai confini estremi di ciò che ci piace. In tutti i luoghi dove siamo approdati, la quercia è diventata sempre un elemento essenziale della nostra vita quotidiana. Abbiamo plasmato un intero mondo servendoci dei suoi frutti e del suo legno e ne siamo stati a nostra volta plasmati."

"Nell'VIII secolo A.C., il poeta greco Esiodo asseriva, ne Le opere e i giorni , che le ghiande servono a combattere con efficacia la fame: « Gli uomini giusti hanno sempre di che mangiare, poichè gli dei offrono loro cibo in abbondabza: querce ricche di ghiande, miele e pecore». Il poeta Ovidio riprende lo stesso concetto nei Fasti , l'opera della maturità, una sorta di rilettura poetica delle feste previste dal calendario romano. Nel capitolo dedicato alla festa di Cerere, la dea del granbo e dell'agricoltura, l'autore racconta che prima della coltivazione dei campi, gli uomini vivevano di ghiande. «La possente quercia consentiva una splendida prosperità». Ovidio era un contemporaneo di Virgilio e di Orazio, e , come loro, un poeta di grande talento. Non sceglieva certo le parole a caso. Usando il termine «prosperità», intendeva dire non solo che le ghiande erano buone, ma che rappresentavano per l'uomo anche una fonte di cibo sicura e abbondante. Lucrezio conferma grossomodo tale ipotesi, aggiungendo che le querce erano così importanti nella vita delle persone che interi rami addobbati di ghiande venivano portati in processione dei riti dei Misteri eleusini. Plinio, il più audace e vorace collezionista di storie del suo tempo, descrive tutti i tipi di quercia a lui conosciuti e i loro rispettivi utilizzi. «Ancora oggi» scrive, «le ghiande sono una fonte di ricchezza per diverse popolazioni, persino in tempo di pace. Inoltre quando il frutto scarseggia, esse vengono essiccate e macinate per ottenere una farina che viene poi impastata per fare il pane; a parte questo, ancora oggi, nelle province iberiche le ghiande trovano posto sulla tavola come secondo piatto».

[...] Se guardiamo a coloro che ancora oggi si cibano di ghiande, sembra che le cose siano andate esattamente così. I cinesi preparano uno stufato di ghiande lisciviate e di castagne. I turchi, a loro volta, preparano il racahout , una specie di bevanda calda o di zuppa a base di farina di ghianda mescolata con vaniglia, zucchero, e altri tipi di farina. Fino al XIX secolo, gli indiani Ojibway, i Menomenee e gli Irochesi, nel Nord Est e nel Midwest settentrionale degli Stati Uniti, si cibavano di ghiande insaporite con sciroppo d'acero, more, carni e olio di orso. Talvolta mescolavano la farina di ghianda con la farina d mais per fare il pane. Gli Apache facevano un pemmican di farina di ghianda, cacciagione e grasso. [...] Le ghiande venivano consumate anche senza condimento, un contorno semplice e nutrienti. L'uso del pane di ghianda è attestato in varie parti del mondo e in alcune zone continua ad essere prodotto. Talvolta la farina viene mescolata con argilla o con cenere di legno duro – un procedimento teso ad addolcire ogni rimasuglio di tannino – ma al di là dei singoli ingredienti, si ottiene comunque un pane scuro e croccante all'esterno e spugnoso all'interno. I tartari della Crimea lo preparavano ancora così alla fine del XIX secolo. In alcune zone della Corsica,della Sardegna e del Nord Africa lo si mangia ancora oggi. Tutti gli indiani della California consumavano pane di ghianda, e il naturalista John Muir definì le torte di ghianda che imparò a fare presso gli indiani «il cibo più compatto ed eneregetico in assoluto». Facile da trasportare, nutrientissimo, si manteneva oer mesi senza andare a male. [...] I frutti della Quercus Ilex – la quercia sempreverde che cresce lungo le sponde del Mediterraneo – sono ancora oggi un piatto festivo molto diffuso nel sud della Spagna, in Marocco, in Tunisia e in Algeria. Fino agli inizi del XX secolo, lo spuntino preferito delle dame al teatro dell'opera di Madrid erano le ghiande arrostite e salate. Le ghiande venivano bollite per estrarre l'olio, questo è usato a volte come unguento disinfettante, ed è efficace nel far cicatrizzare le ferite. Ma in zone del mondo lontanissime tra loro come il Marocco, il Minnesota e il Mendocino, l'olio in questione veniva usato anche in cucina. A Cadice, in Spagna, è ancora possibile usare l'olio di ghianda al posto dell'olio di oliva, mentre nella regione dell'Estremandura, sempre in Spagna, esiste un liquore a base di ghiande. Il fatto che ancora oggi le ghiande vengano mangiate in così tanti modi e in così tante parti del mondo avvalora la tesi secondo cui in passato esse furono alla base dell'alimentazione umana.

[...] In quasi tutte le lingue indoeuropee, la parola «porta» deriva dalla parola «quercia», duir: door, tur, puerta,porte ne sono un esempio. Certo, la quercia è robusta; certo, le porte erano spesso fatte di quercia. Ma perchè chiamarla «custode della pporta»? Nell'antica coltuta celtica, i nomi dei mesi corrispondevano a nomi di alberi. Duir era il mese che precedeva il solstizio d'estate, mentre il mese seguente era chiamato tinne ,ovvero agrifoglio. Benchè in Inghilterra questa tradizione si riferisse all'agrifoglio vero e proprio, il cui nome scientifico è Ilex , in quasi tutta l'Europa delle origini, dove le querce caducifoglie e sempreverdi crescevano spesso fianco a fianco, esso si riferiva alla Quercus coccifera , la cosiddetta quercia spinosa, una pianta sempreverde le cui foglie assomigliano moltissimo a quelle dell'agrifoglio inglese. [...]In origine, dunque, i due mesi in questione erano dedicati entrambi alla quercia, il primo alle querce caducifoglie, il secondo alle sempreverdi. La quercia costudiva la porta d'ingresso dell'anno, quando finiva la metà crescente ed iniziava quella calante. I celti non conoscevano altre piante che fossero al tempo stesso caducifoglie e sempreverdi nè conoscevano una famiglia di piante tanto numerosa, varia e generosa, Le querce caducifoglie custodivano la parte crescente dell'anno, le querce sempreverdi quella calante.Insieme, erano la dimostrazione concreta che la vita può passare indenne attraverso l'inverno e rinascere a primavera. [... ] Nella cultura celtica, i druidi svolgevano la funzione di legislatori e cantastorie. Il titolo onorifico druid deriva dall'unione di due parole: dru, che significa «quercia», e wid , ovvero «vedere» o «sapere». Le persone giudicate degne di cantare le storie delle tribù e di interpretarne le leggi si diceva possedessero la «conoscenza della quercia».

In italia

1687

Da L’economia del cittadino in villa di Vincenzo Tanara (ed. 1687). Tanara ne parla nel Libro VI dell’opera suddetta intitolato “La Terra” e ne scrive affrontando il tema degli alberi; questo il suo testo: In tempo di penuria i Villani hanno fatto farina di Ghiande, successivamente pane; ma in ogni tempo questi Contadini si sono appropriati, come suo, questo frutto, presupponendo, che il Padrone non n’abbia hauere la sua parte, anzi quando s’addimanda, la fanno mangiare a Porci senza raccorla, però sarà bene con patto espresso obbligarne a darne una certa quantiyà, del resto ne facciano quello che gli pare … (p. 449)

1765

In "Sulle specie diverse di frumento e di pane siccome della panizzazione" …, Firenze, 1765, di Saverio Manetti Accademico georgofilo, all’Articolo Decimo, “Notizie intorno a molte piante, le quali sebbene non sieno conosciute, o adoperate per farne pane, possono però … essere ridotte in pane…”, Manetti parla dell’uso a Giava e isole orientali dove vengono mangiate lessate o tostate. Simile uso pare diffuso anche in Spagna.

Frutto da non disprezzare e il cui sapore molto si avvicina a quello delle castagne; se poi alcune varierà danno un frutto amaro ed ostico, Manetti ne consiglia dopo la tostatura,bollitura e macinazione di mescolare la farina ottenuta, con altre più leggere sì da renderla porosa, friabile, solubile. Non in uso in Italia e in Toscana, ma in tempi di carestia, possono usarsi anche presso di noi le ghiande che come le patate, dopo essere state seccate, pestate e ridotte in farina, possono servire a far pane o quanto meno ad aumentarne la sostanza.

Saverio Manetti

1851

P. G. Grimelli,nella sua opera "Metodi pratici per fare al bisogno pane e vino con ogni economia e salubrità nelle circostanze specialmente di carestie", Modena, 1851, afferma che la farina di ghiande, aggiunta in pochi centesimi a quella cruscata di frumento, ovvia agli effetti lassativi che quest’ultima produceva all’uomo che se ne nutre con continuità.

E la gran massa dei poveri di questo pane cruscato si nutriva! Inoltre, continua Grimelli, le ghiande, bollite più volte (per spogliarle del loro sapore amarognolo) insieme a farina di “formentone o di fava” si prestano alla preparazione “di una buona e nutritiva polenta o minestra”. Le ghiande inoltre, acconciate ad uso alimentare nelle maniere suddette, hanno per l’auture “azione saluberrima … preservativa e curativa di malori cachettici, in ispecie scrofolosi e tubercolari” e aiutano l’intestino a ripulirsi: dunque alle ghiande è riconosciuta grande azione “terapeutica e medicamentosa”.

Il pane di Ghiande Sardo : pan'Ispeli.



«Un proverbio sardo dice: “ a su famene, finza sa lande paret castanza” – quando si ha fame anche la ghianda può sembrare una castagna. Il proverbio sintetizza concetti carichi di verità e di tempi in cui la fame era sinonimo di paura e di morte. In buona parte del Medioevo, per le classi povere di tutta Europa, la fame era stata lo stimolo per ricercare alimenti per appagarla.

E’ risaputo che in Sardegna la ghianda è molto diffusa (di quercia, sughera e leccio) ed è stata utilizzata fin dall’antichità nell’alimentazione umana per realizzare un pane: pane de lande o pan’Ispeli. Una tipologia di pane sicuramente conosciuto fin dal Neolitico e non solo dai sardi. Di pane di ghiande se ne parla nella Bibbia, quando Enoch insegnava ai Nabatei la preparazione del pane di ghiande. Di questo pane ne riportano notizie gli scrittori greci perché utilizzato a Sparta. La ghianda è stata trovata anche su palafitte abitate nella valle del Po e in alcune vallate svizzere, evidentemente preparate per essere consumate dagli abitatori.

Il pane di ghiande è stato nominato da Plinio il Vecchio, nel suo Naturalis Historia, descrivendolo come un pane di ghiande impastato con l’argilla, del quale si nutrivano i Sardi.

Il pane di ghiande era un pane azzimo utilizzato per buona parte dell'anno e veniva preparato scegliendo la quantità necessaria di ghiande ben mature, le quali venivano sbucciate e lessate. L’acqua veniva filtrata attraverso uno strato di argilla, cenere e erbe aromatiche. La cenere depurava dal tannino delle ghiande, e l'argilla trasmetteva il glutine fondamentale per legare l'impasto. Ottenuta una specie di polenta con le ghiande lessate, si poneva ad asciugare su tavole per poi essere tagliate a tavolette a seccare al sole o al forno e poi consumato a fette. In alcuni paesi sardi dell’Ogliastra: Baunei, Talana, Arzana, Gairo e Jerzu, la preparazione di questo pane si è conservato fino agli anni ’50 del secolo scorso.

Lo scrittore Vittorio Angius (1797-1862) affermava che "Le donne di Baunei ne portano in altri paesi e lo vendono più caro che se fosse di farina scelta. Se ne manda in dono e si pregia come una cosa singolare...". Il consumare su pan’Ispeli, oltre che per la necessità di sopperire alla fame in tempi di magra, è stato messo in relazione con antiche forme di geofagia (parola proveniente dal greco gé, terra, e phageìn, "mangiare" cioè “mangiare terra”).

Già Platone consigliava alle donne incinte di ingerire argilla come ricostituente. I romani impastavano l’argilla con sangue di capra e ne facevano dei biscotti curativi. L’argilla simboleggiava il sangue della Dea Madre, fondamento culturale delle prime società primitive sarde e di tutto il bacino del Mediterraneo. La terra è anche madre che accoglie e alimentarsi con quel pane significava avvicinarsi alla divinità per assicurarsi così la salvezza nell’aldilà ». Testo di Giovanni Fancello esperto e docente di storia della gastronomia sarda.

Il Caffè di Ghianda



Dalle ghiande essiccate, tostate e opportunamente macinate si ricavava una polvere finissima utilizzata per la preparazione del “caffè”. In Italia durante la seconda guerra mondiale e ancor prima in cui il caffè era introvabile o quantomeno un prodotto di nicchia iniziarono a diffondersi svariati surrogati prodotti su larga scala. Uno di questi surrogati era appunto il caffè di ghianda, una materia facile da reperire a basso costo. Una storica azienda di Pontedera specializzata in surrogati del caffè e tutt'ora operativa, produceva appunto questa curiosa bevanda, unitamente ad altri tipi di surrogati quali il caffè di cicoria e di ceci.